Caravelle – SE210



Il Caravelle e’ il primo velivolo di linea francese a reazione e giunge sul mercato dopo i gravi problemi strutturali che hanno funestato il primo velivolo di linea in assoluto, il Comet. Con un “Peso Massimo al Decollo” di 48.000 Kg, poteva ospitare 86 passeggeri piu’ 8 membri di equipaggio e raggiungeva una velocita’ di crociera di Mach .78 o 317 Kts che, seppure inferiore a quelle del Boeing 707 e del DC8, comunque era una velocita’  ragguardevole per gli anni ’60. I quattro serbatoi con una capacita’ di 15.000 kg, pari a  19.000 lt, gli consentivano un’autonomia superiore alle quattro ore. Era dotato di due motori Rolls-Royce, con un compressore a 17 stadi ed una turbina a tre stadi che sviluppavano una spinta di 5.600 kg ciascuno che gli permettevano di raggiungere una quota massima 39.000 ft. La turbina in decollo raggiungeva 8.050 giri/minuto ed una temperatura, all’uscita del terzo stadio, pari a 670° C. Questo motore aveva una caratteristica particolare: montava sul cono di scarico una aletta, detta “buse”, che riduceva la sezione e permetteva un incremento di spinta al decollo del 10%. Con un’ala estremamente “pulita”, il Caravelle aveva delle doti paragonabili ad un aliante: aveva una “efficienza aerodinamica” pari a 21. Un’efficienza cosi’ elevata aveva indubbiamente dei lati positivi: la linea molto “filante” gli permetteva di stare in volo con “poco motore” e di raggiungere quote elevate ma di contro era piu’ sensibile alla turbolenza e l’avvicinamento doveva essere condotto, condizione insolita, con gli aerofreni estesi. A causa infatti della sua alta “efficienza aerodinamica”, se non si utilizzavano gli aerofreni, i motori funzionavano a giri molto bassi portandosi in un “campo” dove i tempi di accelerazione erano estremamente lunghi. I motori Avan Mark 531b della Rolls-Royce infatti erano dei reattori “puri” (non “diluiti”, senza by-pass ed estremamente runorosi) e pertanto avevano tempi di accelerazione, dal minimo alla potenza di decollo, dell’ordine di una decina di secondi. Cio’ voleva dire che durante un avvicinamento senza gli aerofreni,  se si fosse resa necessaria tutta la potenza per effettuare una “riattaccata”, si sarebbe dovuto attendere un tempo troppo lungo per raggiungere la potenza massima , con le conseguenze immaginabili. Dotato di un impianto freni non particolarmente efficiente e con tendenza a surriscaldarsi, il Caravelle era di conseguenza equipaggiato con un “paracadute freno”, il cui impiego era limitato alle piste contaminate (neve o slush) o alle piste particolarmente corte. La velocita’ di estensione del paracadute era consentita al di sotto dei 130 kts e, se superati, si aveva lo “strappo” del paracadute stesso. Un’altra caratteristica unica, per quei tempi, era l’impiego di comandi di volo “completamente idraulici” che essendo estremamente sensibili necessitavano della cosidetta “sensazione muscolare” che comportava un “indurimento” dei comandi in funzione della velocita’. Questo impianto era dotato di numerosi dispositivi di sicurezze a prova di “grippaggio” dei martinetti ed era alimentato in modo “incrociato” da tre impianti idraulici chiamati “verde”, “blu” e “giallo”.

Il  “passaggio” e l’abilitazione in linea erano molto lunghi, circa tre mesi e mezzo e prevedeva un corso di tre settimane sugli impianti, uno di dieci giorni sulle “prestazioni” e “tecniche di pilotaggio”, dodici missioni al simulatore di quattro ore piu’ due ore di briefing, i “voli campo” di otto missioni da un’ora e trenta per allievo ed infine l’abilitazione in linea. Naturalmente al termine di ogni corso era previsto un esame “fiscale” scritto o orale. I cosidetti “voli campo” erano effettuati gran parte a notte inoltrata, di solito si arrivava in aeroporto verso le 23.00 e si andava avanti fino alle 04.00 del mattino. L’orario insolito era voluto per utilizzare l’aeromobile quando non era piu’ impegnato dai voli con passeggeri. Cio’ creo’ alla lunga dei problemi con la popolazione dei paesi limitrofi all’aeroporto che non riuscivano a dormire e cosi’, da Fiumicino gli addestramenti furono trasferiti in aeroporti diversi, Venezia e Palermo. Anche qui alla fine ci furono delle proteste ed i voli d’addestramento vennero svolti a Tunisi.
I “voli campo” prevedevano tutte quelle “manovre” che normalmente non si eseguono in condizioni normali ma che il pilota deve conoscere ed essere pronto ad affrontare. Cio’ comprendeva pertanto gli stalli accentuati (deep stall), la compressibilita’ (superamento delle velocita’ massime in quota (il “buffet onset”, cioe’ lo stallo d’alta velocita’), l’evacuazione fumo con la decompressione a 10.000 piedi e l’apertura dei finestrini cabina passeggeri e pilotaggio con successivo atterraggio, la discesa d’emergenza da 39.000 piedi con le maschere d’ossigeno indossate, l’estensione manuale del carrello, l’avvicinamento e atterraggio senza flap, ecc. ecc. La manovra piu’ “eccitante” che ricordo era il circuito a vista a 300 piedi che effettuavamo a Venezia, sorvolando in virata le ciminiere di Porto Marghera a 130 nodi con l’ala che sembrava sfiorarle.

Un’altra caratteristica del Caravelle era la tecnica del “volo per assetti” che con un addestramento particolare, troppo complesso per essere descritto in poche parole, permetteva il volo con l’anemometro in avaria basandosi unicamente sui giri del motore e sugli assetti. Se applicata correttamente, questa tecnica consentiva una precisione di cinque nodi su tutte le fasi dell’avvicinamento.
In conclusione il Caravelle e’ stato un aereo innovativo nel suo genere e con caratteristiche valide ma anche con problemi legati alla complessita’ dei suoi impianti che a volte penalizzavano la validita’ “commerciale” del velivolo.
 
 
 
 

Il mio “volo che non si dimentica” con il Caravelle risale al 4 novembre 1966, quando ci fu la grande alluvione in tutta Italia. Decollati da Tel Aviv quel mattino alle 06.00 GMT con I-DAXA, quando giungemmo sulla Puglia, notammo a Nord Ovest un enorme ammasso di nubi cumuliformi che, ad occhio, sembravano arrivare intorno ai 40.000 piedi. Cominciammo ad esplorare avanti a noi con il radar ed effettivamente c’erano delle ampie cellule temporalesche. Proseguimmo il volo e poco dopo entrammo nelle nubi. Su Teano iniziammo la discesa e cominciammo ad incontrare la prima turbolenza. Il comandante era Alberto Salvia, un siciliano dalle sembianze piu’ nordiche che meridionali, pilota proveniente dall’A.M. e con esperienza sui velivoli ad elica: DC3, DC4, DC6 e DC7. Il secondo era Giacon, un veneto, di Verona, un uomo simpatico che quando si arrabbiava lo faceva in dialetto veneto. Io ero il “terzo” pilota, con meno esperienza di tutti e da poco abilitato al Caravelle. Proprio su quel volo il comandante Salvia mi aveva messo al posto di pilotaggio di destra mentre Giacon stava seduto dietro al posto del motorista. Dopo Frosinone fummo autorizzati a proseguire per Ciampino. Man mano che scendevamo la situazione andava peggiorando: scroschi di pioggia sopraffusa e ghiaccio colpivano il muso con un fragore assordante. Anche la turbolenza non accennava a diminuire, ricordo che vedevo alzarsi e spostarsi i manuali di bordo e ad un certo punto il “coperchio” che fungeva da paraluce sullo schermo radar, volo’ via. Ricordo una hostess che venne in cabina e, pallida in viso, alzando la voce per sovrastare il rumore della pioggia, ci disse che in cabina stava volando tutto e c’erano bicchieri di vetro rotti ed altri oggetti sparsi sul pavimento. Mentre io mi occupavo delle comunicazioni radio, il comandante Salvia aveva disinserito l’autopilota, come previsto in condizioni di forte turbolenza, e portava l’aereo a mano. Giacon intanto stava ascoltando il Volmet e annotava i bollettini meteorologici di tutti gli altri aeroporti che avremmo potuto utilizzare per una diversione. Dopo Ciampino fummo autorizzati a 3.000 piedi,  impostammo una prua di 310° per iniziare l’avvicinamento sulla pista 16 e passammo sulla frequenza del Radar. L’operatore ci comunico’ che eravamo numero due all’avvicinamento, che sul suo schermo notava degli intenso “clutter” e ci chiese le condizioni di volo. Rispondemmo che eravamo in condizioni IFR con formazioni di ghiaccio e turbolenza severa. Seguimmo le prue che ci venivano fornite dall’operatore radar e contemporaneamente sentivamo le comunicazioni del numero uno al quale venne comunicato che il vento raggiungeva picchi di 50 nodi e di cambiare sulla frequenza della Torre. Eravamo, sempre in volo tra scrosci di pioggia e turbolenza, allineati sul “localizer” dell’ILS quando improvvisamente le indicazioni sparirono e le “bandierine rosse” apparvero su entrambi i ricevitori. Furono attimi di apprensione poiche’ l’avaria cio’ ci costringeva a “riattaccare” e rinunciare all’avvicinamento ma poco dopo i segnali tornarono, inizialmente fluttuando ed infine si stabilizzandosi. Qualche secondo piu’ tardi fummo istruiti a passare con la Torre e facemmo in tempo a sentire l’aereo davanti a noi che segnalava la presenza in pista di ostacoli, credo grossi rami, trascinati dal forte vento. Prontamente la Torre ci chiamo’ ed ordino’ di riattaccare e tornare sulla frequenza del Radar. L’operatore di prima ci riprese in carico e ci diede un “vettore” per posizionarci nuovamente per un secondo avvicinamento. Eravamo a 2000 piedi e non avevamo mai smesso di “ballare”. Cominciavamo ad essere sotto stress, ricordo che dissi al comandante che mantenendo la prua, assegnataci dal Radar forse era meglio salire di almeno mille piedi poiche’ ci dirigevamo verso le colline intorno a Roma e lo comunicai all’operatore che non obietto’. Giacon ad un certo punto si tolse la cuffia, mise una mano sulla spalla al comandante e, quasi strillando a causa del rumore in cabina, disse: “Comandante, la situazione non e’ molto allegra, Ciampino, Capodichino, Palermo, Cagliari chiusi per vento. Genova e Pisa con forti temporali”.  In effetti la situazione non era “allegra” ed il carburante scarseggiava. Intanto eravamo di nuovo allineati con il Localizer e tra breve avremmo “agganciato” il “Glide-Path” dell’ILS. Sembrava che, nonostante le condizioni pessime ed il forte vento, oramai fosse questione di minuti e poi avremmo messo le ruote a terra quando improvvisamente il segnale ILS scomparve nuovamente. Questa volta non era un inconveniente momentaneo, bisognava riattaccare poiche’ eravamo ancora in condizioni IFR e non avevamo nemmeno il contatto visivo con il suolo. Lo comunicai alla Torre che mi rispose che l’avaria risultava anche a loro e che avrebbero mandato una “campagnola” a controllare l’apparato. Seguimmo per la seconda volta la procedura prevista per la riattaccata portandoci sulla prua di 190° e salendo a 2000 piedi e passando sulla frequenza del Radar il quale ci comunico’ un minuto piu’ tardi che la Torre gli aveva detto che la campagnola, prima di rovesciarsi in pista per il forte vento, aveva segnalato dei grossi rami che avrebbero ostacolato l’atterraggio. Non c’era speranza di riattivare l’ILS poiche’ il trasmettitore era danneggiato e non restava che dirottare su un altro aeroporto, ma quale? Il comandante Salvia, rivolgendosi a Giacon gli disse “Andiamo a Pisa” e lui gli rispose “Ma comandante, a Pisa il ceiling e’ piu’ basso dei minimi, l’aeroporto e’ chiuso!”. Con il poco carburante rimasto in effetti gia’ arrivare a Pisa era un’impresa e di andare a Ciampino neanche a pensarci, visto come era messo Fiumicino!
Comunicammo la decisione di dirottare a Pisa al Controllo ed iniziammo la salita per la nuova quota di crociera, volando alla velocita’ di minimo consumo. Fortunatamente sulla nuova rotta la turbolenza cesso’ e dopo una breve crociera iniziammo nuovamente la discesa. Sempre dentro le nubi, contattammo Pisa che ci riporto’ l’ultimo bollettino che dava il ceiling molto basso, a 500 piedi, insufficiente per iniziare un avvicinamento NDB che richiedeva un minimo di 800 piedi. Non c’era altra scelta, il carburante scarseggiava ed anche Genova non era piu’ raggiungibile. La turbolenza era cessata, il comandante Salvia inizio’ la procedura pubblicata e lascio’ i 5.000 piedi eseguendo la manovra con precisione nonostante fosse affaticato. Eravamo preoccupati per il ceiling e quando arrivammo a 800 piedi e non si sbucava dalle nubi, la tensione aumento’.
Non avremmo dovuto scendere oltre poiche’ non era piu’ garantita la “separazione” dagli ostacoli. Io leggevo ad alta voce l’altimetro: 700 piedi, 600 piedi, 500 piedi, poi improvvisamente “uscimmo” e sulla nostra destra comparve la pista. Con una virata il comandante Salvia si allineo’ e poco dopo il carrello tocco’ la pista. Era fatta! Rullammo fino al parcheggio ed una volta spenti i motori andai in cabina fra i passeggeri: dai loro volti compresi che l’ultima ora di volo non dovevano averla passata molto serenamente. La cabina era quasi irriconoscibile per il disordine e notai subito il caratteristico odore acre di chi ha dato di stomaco. Era piu’ che comprensibile!
Circa un’ora dopo, fatto rifornimento di carburante, rientrammo a Fiumicino dove, sebbene la buriana fosse passata, continuava a piovere.